PERCHE’ I SARDI NON HANNO NAVI PROPRIE
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La storia e la cultura italiana hanno smpre asserito unitamente ai loro asdari cattedrati isolanini ,ostentando molta convinzione che l‘aasenza di ostanziali attività marinare che la Sardegna ha registrato dal 700’ad oggi è essenzialmente dovuta al fatto che l’etnia sarda è geneticamente avversa al mare per cui tale affemazione, essendo stata accolta stupidmente con molta rassegnazione dalla popolazione isolana, viene riportatata acriticamente amche per giustificare non solo la ‘incapacità dei Sardi di di crearsi una propria compagnia di navigazione per potersi collegare liberamente e meno onerosamente con il mondo extrainsulare a proprio piacimento e secondo le proprie necessità economiche.
Tuttavia attulmente la validità di questa asserzione risulta completamentte nullla non tanto perchè tuttti gli studi sul genoma umano non hanno riscontrato l’esitena del gene relativo alla repulsione per il mare, ma sopratutto perchè da oltre diciotto anni inconfutabilmente ho dimostrato con dati scientifici inopugnabili che i Sardi sono stati ipiù abili navigatori della protostoria grazie al possesso di navi dotate di caratteristiche tecniche sorprendentemente moderne ( non presenti nelle navi di altri popoli del mondo antico) mediante le quali furono i primi pprotagonisti di grandi imprese oceani che furono ripetute solo dopo alcune migliaia di anni dai navigatori portoghesi ed italiani.
Infatti, oltre i diversi dati che comprovano presenze sarde nelle più estreme coste dell’Africa subequatoriale, ho individuato ancfe alcuni elementi culturali che rendono plausibile l’ipotesi che i Sardi possono essere approdati anche in America alcune decine di secoli prima dei Vichingh e di Cristobal Colom ( Cristoforo Colombo).
Pertanto, poichè non è negabile che negli ultimi tre secoli i Sardi siano stati quasi totalmente assenti nelle attività marinare si deve necessariamente ammettere che tale ciò sia stato determinato non da una loro congenita avversità per il mare, ma da un lento e progressivo degrado delle loro attitudini marinare determinato da pesanti e ditruttivi condizionamenti esterni.
Un attento studiio di tale degrado ha rivelato che esso ha sicuramente avuto inizio verso il VI secolo a.C. con la feroce e ditruttiva conquista cartaginese della Sardegba, per proceddere poi con varie lente piccole riprese nei secoli successivi per ragiiungere il suo attuale massimo culmine negli ultimi tre secoli.
Cioè da quando la vita dei Sardi ha subito i distruttivi condizionamenti poltici, economicie culturali, provenienti dalla Peniaola Italiana.
Il più incisivo ed acuto dergado delle attività marinare isolane ebbe luogo con l’assegnazione della Sardgna al duca di Savoia pianificato ed eseguito dalla rapace politica sttecentesca dell’Inghilterra veniva creato il Regno Sado-Piemontese.
Si spiega così perchè, nel 1720, un’intera squadra navale inglese abbia scortato due antiquate e malandate galee ( portate via ai Siciliani) con cui il Barone di S.Remigio, luogotenente di Amedeo II di Savoia, era giunto a Cagliari per prndere possesso dell’Isola.
Si spiega così perchè dalle navi inglesi sbarcarono al suo seguito appena due reggimenti di fanteria, comprendenti ciascuno 1000 armati (prevalentemente, oltre alcune centinaia di ergastolani piemontesi, soldati mercenari svizzeri e tedeschi), ed un piccolo corpo di cavalleria di appena 250 dragni privi di selle e cavalli (questi li presero poi ai Sardi), cioè in tutto circa 2250 uomini che senza alterazioni numeriche costituirono le truppe di occupazione dell’Isola;ossia le forze armate che dovevano controllare e reprimere col terrorismo l’intera popolazione isolana che allora contava circa 350.000 unità.
Col passaggio dalla sfera politica ed economica di una grande potenza, quale era allora la Spagna, a quella di un piccolo misero stato diseredato di montanari ignoranti totalmente privi di ogni elemetare nozione marinara qual’era il Piemonte, le condizioni della Sardegna si aggravarono enormemente poichè al generale disinteresse che gli Spagnoli, dopo la scoperta dell’America, ebbero per questa terra subentrarono vampiricamente gli interessi famelici e rapaci dei Piemontesi.
La politica dei Savoia fu, infatti, tanto meticolosa nella sua gretta e meschina ignoranza da essere improntata in una ingordigia di un immediato guadagno che, attuato soprattutto con una rapina fiscale, dissanguò ogni possibilità di sviluppo sociale, economico presente in Sardegna.
Poichè nel lungo corso di questa politica del meglio l’uovo oggi che la gallina domani i Piemontesi, per paura che qualcuno potesse impadronirsi dell’uovo, isolarono la Sardegna dal resto del Mediterraneo e dell’Europa, è facile intuire in quale stato spaventoso di degrado essi la ridussero la vita di tutta la sua popolazione ed in particcolare la stessa vita marinanara isolana.
Poichè i Piemontesi non possedevano alcuna flotta militare e mercantile, i Sardi per tutto il periodo della dominazione sabauda furono privi di mezzi navali che permettessero loro di portare direttamente i prodotti della propria terra nei mercati d’oltremare, pertanto, dovevano attendere che questi, quasi per grazia, fossero richiesti da intermediari foresi a condizioni onerosissime che determinavano spesso anche la mancanza del minimo profitto locale.
Tale degrado, d’altronde, appare più che evidente considerando che per quasi tutto il 700' l’Isola dal governo sabaudo fu esclusivamente collegata con il Piemonte attraverso il porto di Genova per mezzo di due sole regie imbarcazioni che, oltretutto, viaggiavano ancora a remi.
Erano, infatti, le stesse logore ed antiquate galee, ormai superate da vascelli più robusti e veloci, con cui il Barone di S.Remy nel 1720 era sbarcato a Cagliari, le quali facevano la spola ogni 15 giorni tra la Sardegna e la Liguria.
Partivano una da Porto Torres e l’altra da Cagliari, trasportando, oltre che le merci pregiate ed i passeggeri, anche la posta; ad esse erano affidate, mediante dispacci redatti con cifrari segreti, le stesse comunicazioni fra il governo di Torino e l’amministrazione viceregia che risiedeva a Cagliari.
Poichè nella navigazione spesso presentavano notevolissimi ritardi, le autorità governative, solitamente facevano altre due copie di questi dispacci e le affidavano a navi mercantili di passaggio a Cagliari che erano dirette in Liguria o viceversa.
Pertanto uando il vicerè Marchese di Villalba propose di creare una flotta isolana per risolvere i problema dei collegamenti isolani col Piemonte e con il mondo esterno e di affidarnela gestione alle poche maestranze marinare che ancora erano presenti nel’Isola ed assenti in Piemonte, il governo di Torino non solo espresse subito la sua massima opposizione per il timore che il Regno Sardo Piemontese contrariamente a qauanto era stato programmato potesse diventare sardo di fatto e piemontese di nome.
Tanto e vro che per lo stesso timore successivmente i Sardi furono, prima, allontanati dal mare con una severa legge che faceva loro divieto assoluto di coltivare o pascolare a meno di cinque miglia dalle coste e come se ciò non bastasse vennero ulteriomente separati dal mare interponendo fra loro ed il mare varie comunità non sarde provenient non solo dall’Italia ma anche da altre località non italiane.
Venne cioè attuata una colonizzazione dell’Isola coll’introduzione di elementi forestieri ( Tabarchini, Genovesi, Campani, Greci, Corsi, Francesi e Maltesi ) che vennero insediati, con tutta una serie di agevolazioni e franchigie negate ai Sardi, in numerose località costiere della Sardegna dove era possibile svolgere le più proficue attività marinare quali lo sfruttamento delle saline, la pesca del tonno e del corallo.
Poichè per tutto il periodo sabaudo le licenze per l’esercizio di queste redditizie attività marinare fu sempre permesso esclusivamente ad operatori non sardi, ne conseguì naturalmente che i Sardi rimasero sempre estranei alla cultura marinaraa; pertanto, anche quei sardi che, da allora sino ai giorni nostri, vollero dedicarsi alla pesca, sia per mancanza di mezzi, sia per mancanza di specifiche esperienze professionali, dovettero limitarsi ad esercitarla prevalentemente nelle acque degli stagni o dei fiumi.
L’imposizione di tale isolamento equivalse ad una vera invisibile barriera di filo spinato che da allora in poi cinse tutta l’Isola come un enorme campo di cooncentramento, ciò viene evidenziato considerando che a tutti gli effetti sociali, economici, culturali e politici i Sardi subirono per tutto il Periodo Sabaudo una vera e propria segregazione nella loro terra; segregazione che venne attuata mediante severe disposizioni dispotiche dei regolamenti regi che impedivano a chiunque di partire dall’Isola a meno che non fosse munito di uno speciale passaporto che di solito, solo per eccezionali e gravi necessità, poteva essere rilasciato esclusivamente dallo stesso vicerè attraverso un lunghissimo e complicato iter burocratico.
Pertanto agl effetti pratici in tutto il periodo sabaudo, ossia per oltre un secolo il Popolo Saedo è stato recluso agli arresti domiciliari nella propria isola.
Tale isolamento, che gli esponenti della cultura ufficiale sarda si ostinano ad attribuire all’insularità della Sardegna o alla presunta avversità che i Sardi avrebbero per il mare, fu in effetti la causa prima che gradualmente inibì gradualmente ogni propensione per le attività marinare.
e naturalmente generò quel grande ritardo che la Sardegna ha presentato, dal 700’sino ad oggi, rispetto allo sviluppo di molte regioni del Mediterraneo
Infatti, l’invibile barriera che separa i Sardi dal mare dal 700', sopravisse oltre che in tutto il secolo successivo, anche sino ai giorni nostri.
Naturlmrnte ciò è stato eseguito con mezzi materiali, legislativi e culturali moderni ben divesi da quelli utilizzati dai Piemontesi.
Nell’ottocento, dopo che la Repubblica di Genova venne incorporata nel Regno Sardo Piemontese, venne modificata la gretta mentalità politica sabauda perchè necessariamente il Rrgno Sabado dovette maggiormente aprirsi al mare, ciò non portò radicali mutamenti ai rapporti che i Sardi ebbero nei decenni successivi con il mare; ciò fu essenzialmente dovuto al fatto che questo importante avvenimento storico non portò radicali mutamenti alla stessa grave situazione in cui versava tutta la popolazione isolana.
Anche quando con l’acquisizione dell’esperienza navale ligure e con il favore degli Inglesi, il Regno Sabaudo fu, via via, in grado di crearsi, prima una flotta mercantile e poi di potenziare la propria marina militare, in modo che fosse appena appena degna di questo nome, i Sardi non furono minimamente coinvolti poichè la loro terra fu esclusa dalla possibilità di avere un qualsivoglia progresso culturale e tecnico in campo marinaro.
Così, ad esempio, anche se dal 1830 in poi la flotta sabauda si arricchì di nuove navi, varate in parte nei cantieri liguri ed in parte in quelli inglesi, si fece in modo che la maggior parte del personale di comando ma anche degli equipaggi non provenisse dalla Sardegna, anche se alcuni personaggi sardi, come Giorgio Mameli e Luigi Serra, proprio in quel periodo si distinsero in modo eccezionale per coraggio, esperienza marinara e soprattutto per le loro eccezionali capacità di comando nel seno della flotta sabauda impropriamente denominata Real Flotta Sarda.
CIò pare alludere al fatto che ii Piemontesi nutrissero il segreto timore che i Sardi avrebbero
potuto’riemergere pericolosamente nella politica sabaudda riacquisendo le perse esperienze marinare e che pertanto era meglio tenerli lontano dal mare.
Tale timore sopravisse anche quando la Sardegna, senza che il suo popolo venisse interpelatao
con quella truffa politica storicamente definita Annessione agli Stati Nazionali vennne condannata ad essere proprietà quasi esclusiva del nascituro Stato Italiano.
Infatti, ciò lo si capisce considerando il fatto che nella prima metà del secolo XIX’anche s e lo Stato Sabaudo con il fagocitamento della Repubblica di Genova, ruscì a procurarsi una cultura marinara e i mezi navali di una certa validità, che si incrementarono sensibilmente mentre, col pretesto di una unificazione nazionale, via via attuava l’assoggettamento delle regioni dell’Italia Centrale e Meridionale, esso continuò ad imporre alla Sardegna una politica marittima distruttiva.
Infatti in essa il precedente vuoto di contenuti appare colmato con dolo razionale da tutti quegli interessi coloniali fortemente distruttivi che resero proibitivo nell’Isola qualsivoglia effettivo progresso e primo fra tutti quello nel settore marittimo.
La veridicità di questa affermazione risulta più che comprovata dal fatto che nessuna forma di cultura marinara venne donata all’Isola; non vi vennero, infatti, mai trasferiti dall’Italia nè cantieri navali, nè maestranze specializzate, nè istituzioni culturali di qualsiasi tipo, come ad esempio, scuole di addestramento professionale, che potessero innescare nei Sardi un risveglio della loro antica cultura marinara.
Anzi, l’analisi degli aspetti della politica marinara che l’Isola in tutto il corso dell’800 subì attraverso le direttive trasmesse prima da Torino e poi da Firenze e quindi da Roma, comprovano ampiamente la costante esistenza di una precisa volontà governativa italica di ostacolare qualsiasi iniziativa sarda in campo marittimo.
Come se ciò non bastasse, dopo il 1847, malgrado l’unione doganale creata fra la Sardegna e gli stati continentali, venne a bella posta effettuata una grave penalizzazione di quel poco di cultura marinara ancora presente in Sardegna, negando i fondi che erano necessari per il miglioramento delle strutture non solo dei suoi porti secondari ma anche di quelli principali.
Venne, infatti, privato di un rinnovamento anche lo stesso porto di Cagliari, anche se, conseguentemente alle mutate condizioni politiche del Mediterraneo e dell’Italia, andava registrando un aumento dei suoi traffici; tanto e vero che questo porto, per tutto ed oltre il XIX secolo, aveva come sua unica struttura, che consentiva un qualche intervento di manutenzione navale di entità molto limitata, l’antica e ristrettissima darsena del periodo aragonese che era stata creata per provvedere alle necessità di un naviglio ben più piccolo e diverso dalle grosse navi a vapore che nell’800' stavano rimpiazzando i bastimenti a vela in tutti i mari del mondo.
Pertanto, proprio a partire dai primi decenni dell’800', favorito da un sensibile aumento demografico, ebbe inizio nell’Isola, un crescente spostamento della sua popolazione dell’interno verso le aree più prossime alle coste o verso le coste stesse.
Questa corsa al mare, che era oltretutto sollecitata dalla nuova possibilità apparentemente offerta ai Sardi di avere,, specie in campo commerciale maggiori rapporti con il mondo esterno per le mutate condizioni del Mediterraneo, è infatti chiaramente posta in evidenza da una lenta ma progressiva crescita dei principali centri marittimi tradizionali e dalla nascita di nuovi piccoli abitati costieri.
Fra questi ultimi sono da citare S.Teresa di Gallura, Palau, Golfo Aranci, Budoni, Codaruina, S.Teodoro, S.Nicolò dell’Argentiera, S.Caterina di Pittinuri, Torre Grande d’Oristano, S.Lucia di Siniscola, Cala Gonone, Arbatax, Carbonara ( attuale Villasimius ), Pula, Portovesme, Buggerru, Masua e Nebida.
Ciò malfgrado non si verificò unritorno dei sarddi alle attivitè marinare sia perchè essi erano privi oltre che di mezzzi anche di specifiche espeerieneze e sopratutto perchè,prima ill Governo Sabaudo e poi il Governo Italiano si guardarono bene da l creare specifiche scuoole professionali per le attività marinare le qualim gurda caso sono ancora del tutto assenti perchè categoricamente si è stabilito che ogni benificio traibile dal mare che circonda la Sardegna debba essere esclusivamente pertinente gli Italiani.
Così l’unico vantaggio che ebbeòl’Isola dal potenziamento della flotta sabuda fu quello di avere migliorate le sue comunicazioni con la penisola, poichè le due vecchie galee che collegavano Cagliari e PortoTorres con Genova vennero sostituite con le più moderne navi militari a vapore.
Le due navi avevano per nome Gulnara ed Icnusa; la prima era una nave a pale da 100 Hp varata in Inghilterra nel 1834, mentre la seconda venne varata in Italia nel 1837; queste due unità rimasero in linea sino a quando furono sostituite dal piroscafo Malfatano e dalla corvetta Tripoli che entrarono rispettivamente in servizio nel 1844 e nel 1845 e che, a loro volta, fecero la spola fra i porti isolani e quello di Genova sino al 1885; da tale anno in poi, infatti, i collegamenti fra la Sardegna ed il continente vennero gestiti da compagnie private ad iniziare, dalla famigerata Rubattino che fu la stessa compagnia navale che venne pagata dall’Inghilterra per l’a spedizione garibaldina dei 1000.
L a Rubattino fu tale cin Sardegna, di nome e di fatto, poichè rubò ai Sardi tutto quello che poteva rubare instaurando, con la connivenza del governo, un onerosissimo monopolio dei trasporti isolani che non solo preservò ulteriomente l’isolamento della popolazione isolana e taglieggiò l’esportazione dei prodottiotti isolani minando tutta la vita economica sarda.
Le tariffe praticate dalla Rubattino erano così esose che ,facendo le debi proporzioni fra il costo della vita isolana nella seconda metà del secolo in questione e quello attuale, è come se un sardo oggi per comp n mare il tragitto Okbia -Civitavecchia dovsse e espendere un somma compresa fra 2.800 euro e 560 euro.
Pertanto, dao il grave stato di indigenza economica in cui versava la maggior parte dei Sardi, si capisce perchè il numero dei passeggeri trasportati annualmente dalle navi della Rubattino fosse non solo tanto limitato da non superare le 25.000 unità, ma anche prevalentemente costituito da continentali che facevano la spola tra la Sardegna e la penisola per svolgere i loro affari.
Queste tariffe spiegano anche perchè solitamente la maggior parte dei prodotti dell’agricoltura, della pastorizia isolana venivano inviati nel continente mediante piroscafi battenti bandiera estera.
Comunque, una delle conseguenze più dirette che ebbero in Sardegna i mutamenti politici ed economici del Mediterraneo ed, in particolare, la scomparsa del pericolo delle incursioni dei pirati barbareschi, fu senz’altro quella che le sue coste ridiventarono non solo tranquille ma anche luoghi di una certa attrazione economica.
Dalla fine della prima metà del xix secolo nuovi centri costier si aggiunsero a quelli fatti fondare precedentemente dai Piemontesi e vennero popolati in larga parte da immigrati continentali ed anche i quali, quasi a bella posta, parevano ancora una volta essere stati interposti fra i Sardi ed il mare.
Il governo Italiano giustificò, allora la presenza di questi nuovi arrivati nell’Isola, in parte con la necessità di fare progredire il tenore di vita isolano sviluppando la pesca e l’agricoltura ed in parte con altre esigenze che eufemisticamente venivano definite ragioni commerciali.
Infatti le ragioni commerciali a tutti gli effetti velavano la necessità di creare piccoli approdi che, per la mancanza di comunicazioni interne, venivano utilizzati per prelevare le produttività locali e prime fra tutte quelle minerarie.
Poichè tutto ciò rese il quadro dell’insediamento abitativo costiero isolano molto più articolato che nei secoli precedenti, a prima vista parve che il secolo XIX stesse per sottolineare un ritorno dei Sardi al mare e quindi alla rinascita della loro antica cultura marinara.
Tuttavia, malgrado questo ripopolamento, la vita litoranea isolana, per tutto il corso dell’800', fu tutt’altro che vivace poichè tutta la popolazione sarda, nelle coste, così come nell’hinterland, continuò a condurre una vita grama e priva di qualsiasi ideale o di manifestazioni che fossero appena appena significative sul piano dello sviluppo; cioè una vita abulica e sonnolenta non molto dissimile da quella del secolo precedente.
Nell’Isola erano, infatti, ancora presenti troppi condizionamenti esterni che aggravavano ancora di più quelli interni poichè impedivano i radicali mutamenti sociali, economici e culturali indispensabili per una reale crescita civile.
Ciò è posto in evidenza dal fatto che, se anche le direttive politiche imposte allora ai Sardi, si facevano un tantino meno oppressive, mentre il Piemonte si avviava verso l’unificazione d’Italia, essi comunque continuavano a permanere entro il grande inviluppo distruttivo di un sistema politico coloniale ed oppressivo che già d’allora, era indirizzato a conseguire i propri interessi attraverso quel plagio storico delle loro coscienze che ha impunemente permesso un progressivo impoverimento della loro terra. dettato dal programma di prendere il più possibile dalla Sardegna dando il meno possibile.
Tale plagio, infatti, rivendicando con false declamazioni ai Sardi ideali storici e culturali che erano ad essi alieni, assopì le loro coscienze facendo si che essi non potessero comprendere che, col pretesto del fiocco barlume dei piccoli e lenti cambiamenti che stavano arrivando nell’Isola, che poi non erano altro che un riflesso molto pallido del grande progresso ottocentesco che stava investendo tutta l’Europa, essi non potessero comprendere che stavano per essere derubati non solo delle più ricche risorse della loro terra e quindi di un migliore futuro, ma anche della loro stessa identità.
Pertanto si comprende come l’assenza di attiva vivacità della vita che i Sardi condussero lungo le coste della loro terra, quasi con la stessa ipnotica consuetudine culturale dei secoli precedenti, sta sostanzialmente ad indicare, in modo molto significativo che essi, anche se si erano riavvicinati al mare, continuavano a rimanere ad esso estranei.
Analizzando tutte le manifestazioni che i Sardi fecero in questo periodo nelle aree costiere della loro Isola, si trova sorprendentemente ben poco di marinaro; così, ad esempio, tutti i vari piccoli centri che in questo periodo sorgono in funzione della pesca e di quelle modestissime attività cantieristiche ad essa pertinenti, come ad esempio a Stintino, S.Teresa di Gallura, Palau, La Maddalena, S.Lucia di Siniscola, Cala Gonone, Carloforte, Calasetta ecc. erano quasi del tutto popolati da elementi etnici non sardi, quali liguri, campani e siciliani che vi si erano trasferiti con tutte le loro famiglie.
Il trapianto di tutti questi nuovi arrivati nelle coste sarde da l’impressione che il perdurare dell’estraneità dei Sardi alle attività marinare fosse determinata dal fatto che il mare fosse materialmente e spiritualmente reso inaccessibile alle loro coscienze ed alla loro volontà dal perdirare dell’esistenza di quella barriera invisibile creata dlla abietta polituca dei Piemontesi.
Infatti della contimua presenza di tale ostacolo, per altro, si può dimostrare l’esistenza attraverso un’attenta valutazione della negatività della nuova situazione che si stava allora attraversando la Sardegna; negatività costituita da svariate componenti , oltre che di natura culturale,anche di natura economica e politica.
Fra le prime è da menzionare il persistere, se pure attenuato, dello stato di grave indigenza economica e culturale in cui erano stati segregati i Sardi nel 700; essi, infatti, anche se si erano riavvicinati al mare, dovettero necessariamente continuare a praticare l’agricoltura o la pastorizia perchè risultavano comunque privi, non solo di un piccolo capitale da investire nell’acquisto dei mezzi, ma anche di specifiche conpetenze professionali necessarie per la pratica di qualsiasi attività marinara sia specializzata che semplice, come ad esempio quella della stessa pesca in alto mare.
Ciò è comprovato dal fatto che i Sardi che si erano riavvicinati alle coste privilegiarono solo la pesca negli stagni poichè questa era resa accessibile, non tanto da una cultura tradizionale, quanto dall’impiego di imbarcazioni molto semplici e poco costoso quali i fassones ed i cius,usati rispettivamente negli stagni dell’Oristanese e del Cagliaritano.
Comunque la causa principale del persistere di una separazione fra i Sardi ed il mare, anche dall’800' in poi, deve essere soprattutto riconosciuta nella situazione politica in cui versava la Sardegna che era tale da impedire ai Sardi la pratica di qualsiasi normale attività economica legata al mare compresa quella della pesca.
Se si analizza la politica marittima che allora veniva imposta all’Isola dall’esterno,si riscontra subito che essa era tale da impedire, in modo decisivo, sia alle piccole correnti di pensiero sardo, sia agli stessi Italiani che si erano trapiantati in Sardegna di formulare autonomamente qualsivoglia prospettiva di sviluppo che fosse appena conforme agli interessi ed alle potenzialità dello sviluppo locale.
Si verificò, cioè, che la politica marittima che venne imposta nell’800' alla Sardegna vi determinò tutta una serie di danni che, relativamente ai tempi, furono di certo non meno gravi di quelli che questa terra aveva subito nel 700' .
Quando, ad esempio, il La Marmora sostenne la necessità di utilizzare la felice posizione geografica di Cagliari per crearvi tutta una serie di infrastrutture a carattere marittimo che avrebbero di certo trasformato il capoluogo isolano in una delle principali basi marittime del Mediterraneo e quindi indirizzato l’intera Sardegna a diventare il centro dei collegamenti con tutti i paesi del Mediterraneo, venne subito osteggiato e fatto tacere dal Cavour nella città e nel
Il Cavour, infatti, malgrado fosse riuscito ad arrivare al potere politico carpendo la buona fede ed i voti dei Sardi, fece si che tutte le iniziative proposte dal La Marmora fossero integralmente trasferite nella città e nel porto di Napoli.
Questi ed altri significativi episodi comprovano che anche nel periodo successivo alla costituzione dello Stato Italiano perseverò la precisa volontà politica di impedire, ad ogni costo, uno sviluppo marittimo della Sardegna; ciò perchè questo sarebbe stato sicuramente incompatibile con quei grandi interessi coloniali che l’Italia, anche se appena creata, aveva iniziato ad esercitare nell’Isola.
Si comprende, pertanto, perchè tutta la politica marittima italiana, programmata nel corso della seconda metà dell’800', sia stata indirizzata a favorire esclusivamente la crescita di tutti i porti italiani nel Mediterraneo, ed in particolare di quelli di Genova, Napoli, Palermo, ed a limitare al minimo possibile quella dei porti sardi ostacolando contemporaneamente il sorgere di una imprenditoria marittina sarda .
Il fermo proposito di impedire una qualsiasi rinascita marinara della Sardegna appare tacitamente espresso, non solo al fine di evitare il nascere di una imprenditoria navale isolana che entrando in concorrenza con quella italiana, avrebbe potuto agevolmente infrangere il monopolio delle importazioni e delle esportazioni che questa aveva instaurato nell’Isola, ma soprattutto per impedire che attraverso questa l’economia sarda potesse svilupparsi secondo le sue naturali potenzialità ed aprirsi, quindi, autonomamente ai mercati internazionali, concorrenzialmente a quelle delle altre regioni d’Italia.
Altra ragione, non di certo meno importante, per cui venne allora osteggiato lo sviluppo marittimo dell’Isola, appare costituita dalla precisa volontà del governo italiano di impedire che essa potesse diventare una protagonista attiva di quella rivoluzione industriale che stava mutando la fisionomia sociale, economica e culturale dell’intera Europa.
Sotto questo punto di vista, l’ostilità che il governo italiano ebbe per la ricostituzione di una cultura marinara sarda, appare molto evidente, prima, quando nel 1864, disattese del tutto un progetto, simile a quello del La Marmora, elaborato allora da tecnici ed autorità civiche di Cagliari, che proponeva di trasformare questa città in una Piazza Marittima Commerciale mediante la costruzione di bacini di carenaggio, magazzini per lo stoccaggio delle merci ed altre importanti nuove strutture marittime, poi quando, sempre nello stesso periodo, con il suo totale disinteresse e forse con un subdolo boicottaggio sotterraneo, condannò al fallimento il cantiere navale che un imprenditore sardo (Luigi Falqui Massidda) con grande zelo imprenditoriale e grossi sacrifici economici, aveva aperto in un’area contigua al porto di Cagliari.
Tale ostilità apparve ancora più evidente quando, negando ogni finanziamento, impedì l’attuazione di un secondo progetto molto più importante che era stato elaborato, sempre a Cagliari, nel 1869 in concomitanza dell’apertura del Canale di Suez.
Questo secondo progetto contemplava l’inderogabile rinnovamento di tutti gli sbocchi isolani al mare in vista della trasformazione della Sardegna nel più vasto centro di coordinamento dei traffici marittimi mediterranei che in corrispondenza biunivoca iniziavano a collegare l’Oceano Indiano con l’Oceano Atlantico.
Pertanto, dopo l’apertura del canale di Suez, l’avanmare sardo se non ci ci fosse stato l’impedimento del’Ialia si serabbe trasformato nel centro nevralgico di quei traffici commerciali che scorrevano in tutte le direzioni del Mediterrane mutando così positivamente l’economia ed il progresso civile dei Sardi.
Esisteva, infatti, un forte e quanto mai categorico off limitss intercalato fra i Sardi ed il mare potenze europee traevano dalle loro colonie dell’Africa orientale e dell’Asia, le materie prime indispensabili alla loro crescita industriale, la Sardegna avvolta nel groviglio dei gravi condizionamenti politici, economici e culturali che le venivano imposti dalla politica coloniale italiana, dovette subire una forzata inibizione di ogni sua possibilità di progresso.
Essa, malgrado la sua felice posizione geografica, la sua naturale vocazione marinara e soprattutto malgrado fosse allora la terra più ricca di minerali di tutto il Mediterraneo, venne non solo esclusa dai benefici economici del flusso mercantile che scorreva innanzi al suo avanmare, ma anche dallo stesso sviluppo industriale europeo; venne anzi costretta a svolgervi un ruolo onerosamente identico a quello delle colonie che gli stati europei avevano in Africa, poichè dovette partecipare alla rivoluzione industriale in un modo del tutto passivo e oneroso.
Venne, infatti, spogliata dall’Italia, di tutta le sue risorse economiche ed, in particolare di quelle minerarie che costituirono, così, uno dei più importanti contributi, quasi del tutto gratuito, non solo alla produttività industriale italiana ma anche di quella di altri paesi europei (Belgio, Francia ed Inghilterra).
In effetti si trattò di una vera e propria rapina perpetrata estendendo all’Isola, verso il 1850, la legge mineraria sabauda.
Per questa legge, infatti, lo Stato Sabaudo prima, e quello Italiano poi, attribuendosi arbittrario diritto di proprietà esclusiva su tutto il sottosuolo sardo, potè vendere a proprio piacimento e senza che alcun indennizzo venisse riconosciuto ai Sardi, le concessioni per lo sfruttamento delle miniere isolane, oltre che alle compagnie italiane, anche a quelle francesi, belghe ed inglesi.
Appare, pertanto, chiaro che la ragione fondamentale per cui il governo italiano impedì, per tutto il secolo XIX e successivamente, uno sviluppo marittimo ed industriale della Sardegna, era costituita da una quanto mai cinica determinazione politica d i rapinare ai Sardi non solo il valore aggiunto che competeva alle risorse della loro terra, ma anche le medesime.
Si fece, quindi, in modo che mediante un crescente impoverimento dell’Isola e della sua popolazione, si creasse quasi grattuitamente la ricchezza delle regioni industriali italiane.
Per comprendere con quale meticolosità è stata attuata questa rapina, basta considerare che per portare via le risorse isolane non furono create valide strutture marittime che in un modo o nell’altro potessero essere successivamente utilizzate dai Sardi ed agevolare così uno sviluppo marinaro dell’Isola.
Infatti, le più importanti risorse che possedeva la Sardegna, quali il legname ed i minerali, sono state prelevate con la creazione di tutta una serie di piccoli e fatiscenti approdi provvisori che eufemisticamente venivano definiti Scali Commerciali.
E’ anche da ricordare lo scalo commerciale, ubicato presso Carbonara (attuale Villasimius) dove, dal 1824 in poi, utilizzando un vecchio porticciuolo medioevale, già in disuso da molti secoli, vennero esportate verso le nascenti industrie italiane le innumerevoli centinaia di migliaia di tonnellate di carbone in cui i carbonai toscani trasformarono la maggior parte del secolare ed esteso manto boschivo che sino all’ 800' ricopriva tutti gli altopiani e le montagne della Sardegna.
Per capire di quale enorme entità sia stata la distruzione dei boschi sardi al fine di produrre il carbone richiesto dalle nascenti industrie italiane basta pensare che solo nel periodo compreso fra il 1878 ed il 1885 sono stati rasi al suolo non meno di 50.000 ettari di sugherete e di lecci secolari, per cui si può presumere che nellìintero 800' l’Isola sia stata privata di ben oltre 100.000 ettari di boschi per trasformarli nel carbone uti che vennelizzato dall’Italia per alimentare le nascenti industrie delle sue regioni settentrionali perchè queste vollero risparmiare i soldi necessari per acquistare il carbon fossile prodottodagli stati europei ( Inghilterra,Belgio, Germania ect.)
Tale innaudita rapina a danno dei Sardi, venne attuata facendo tacere le poche voci di protesta isolane vennero mediante il tradimento dei politici isolami dell’epoca i quali asserivano che solo attraverso quell’ interessamento italiano esterno era possibile ottenere una valorizzazione delle risorse isolane
Pertanto approssimativamente dal 800’ al 900’ i Sardi hanno subito la rapina di circa 70 milioni di tonnellate di minerali corrispondenti ad un valore economico attuale di cica 100 miliardi di euro con i quali la Sardegna, oltltre che esseree dotata di una propria flotta navale ed aerea poterva essere trasformata in una terra di infelici proletari disoccupati ma una terra di gnte felice.
Tutto ciò dimostra palesemente che la richezza acquisita dalle regioni del settentrione italiano sono state create rapinando ed impoverendo oltremodo gli sprovveduti Sardi che così furono destinati alì’attuale vita sottosviluppo e di miseria della loro terra.
Pertanto con tale rapina sè è grande è il debito storico che l’Italia ha allora contrattio con il Popolo Sardo ancora più grande deve essere la sua civile vergogna perchè successivamente con maggiore cinismo per trarre maggiori vantaggi economici dall arbitrario possesso’Isola, non paga di quella ed altre rapine delle ricchezze isolaane, ha rapinato anche la sita anima con un plagio culturale per destinarlo cosi impunemente a quel genocidio in guanti bianchi attauto con la sua forzata emigrazione.
Nell’occasione dellla grande rapina mineraria non venne concessa all’Isola la più piccola atività industriale necessaria alla vita quotidiana, poichè i minerali sardi, dopo esere stati trasformati dall’industria pesante in prodotti strumentali, in piccola parte ritornavano al loro luogo d’origine per soddisfare il fabbisogno locale.
Conseguentemente i Sardi subivano anche una ulteriore rapina: quella del loro modestissimo reddito, che spesso era al di sotto dei limiti della sopravvivenza, che così venine da allora in poi incanalato verso la penisola italiana per incrementare ulteriormente il benessere dei loro sfruttatori.
Questo spaventoso e vergognoso stato di cose venne naturalmente favorito, in tutto il suo lungo protrarsi, importando in Sardegna una sterile cultura intrisa di retoriche menzogne storiche e spirituali fondata su falsi dogmi pseudo.umanistici che hanno plagiato, ingannato e deviato le piccole correnti di pensiero isolane facendo si che non potessero fertilizzare il sorgere di una classe imprenditoriale in ogni settore dell’economia isolana e tanto meno in quelli legati al mare.
La Sardegna, conseguentemente, non ebbe, come sarebbe stato naturale, nè i propri cantieri navali, nè i propri armatori, nè i propri bacini di carenaggio; non ebbe quindi, oltre che le proprie maestranze marinare, nemmeno la propria classe di importatori e di esportatori commerciali e quindi venne così sancita la sua totale dipendenza dall’esterno in ogni settore della sua vita marinara e soprattutto in quella dei trasèporti indispensabili per collegare la sua popolazione e la sua economia con il mondo esterno.
Ed è proprio per questa totale dipendenza dall’esterno, sempre favorita se non determinata subdolamente dal Governo Italiano con l’irresponsabile indiferenza o prezzolata connivevza di quasi tutti i personaggi politici isolani, che il problema dei trasporti marittimi ha costituito draumaticamente, per tutto il XIX secolo, la causa principale del mancato sviluppo dell’economia isolana; ciò è ravisabile nel fatto che mezzi ed imprenditori navali esterni, attuando nell’Isola un vero e proprio regime di monopolio, hanno sempre potuto operare, al di fuori di ogni vitale interesse economico dei Sardi e contrastado, quindi, ogni loro naturale impulso evolutivo.
La responsabilità che ha avuto il Governo Italiano in tutto l’800' nel soffocare il naturale respiro economico della Sardegna, d’altronde, risulta più che evidente su un piano generale, per il tipo di politica marittima che nel secolo in questione impose alla Sardegna, in base a determinati avvenimenti storici.
Fra i fatti particolari è da menzionare quello del 1891, allorchè il Governo di Roma, con il pretesto di migliorare la gravissima situazione dei trasporti da e per la Sardegna, stipulò una nuova convenzione con la Società Generale di Navigazione che era succeduta alla famigerata Società Rubattino, paventando una riduzione delle tariffe dietro elevate sovvenzioni statali.
Vennero così sostituite le navi dei servizi Civitavecchia-GolfoAranci, Genova-Cagliari e Genova-Porto Torres, con navi riverniciate a nuovo che erano però dei semi-relitti vecchi più di 25 anni, come il Volta, l’Iosto e l’Etna, e vennero praticate delle tariffe che, dopo essere state ridotte in un primo tempo, ridiventarono presto eccessivamente onerose.
Infatti, a tutti gli effetti la Società di Navigazioe Generale, come comprovò l’inchiesta eseguita dal Pais, pur fruendo di elevate sovenzioni statali, esercitò nell’Isola, al pari della Rubattino un pesante monopolio che arrecò ingentissimi danni a tutta l’economia sarda.
Tali danni appaiono più che evidenti considerando che le merci imbarcate nei porti sardi erano gravate da tariffe che risultavano il triplo di quelle che , per uno stesso percorso, partivano dai porti della penisola o della Sicilia.
Per conseguenza, i prodotti importati in Sardegna costavano molto più che in Italia, mentre l’esportazione delle merci isolane nel continente, pur rendendo di meno ai produttori, non potevano essere assolutamente competitive.
Questo stato di monopolio, oltrettutto, veniva esercitato con metodi che attualmente possono essere definiti camorristici .
E’ noto che il metodo più semplice usato dalla Società di Navigazione Generale per eliminare qualsiasi concorrente pericoloso era quello di ridurre, spesso al di sotto degli stessi costi, alcune tariffe ed aumentarle poi molto più drasticamente.
Tuttavia il danno più grave che la dipendenza da un sistema navale esterno generò alla Sardegna ed al suo popolo, più che nelle onerosissime tariffe, va individuato nel fatto che il regime di monopolio, che esso impose ai trasporti isolani, impedì all’economia locale di potersi affacciare liberamente in tutti i paesi del Mediterraneo.
Infatti, esso, analogamente a quanto si verifica ancora oggi, servì solo a collegare i porti sardi direttamente ed esclusivamente con i porti principali italiani del Tirreno; la Sardegna, conseguentemente, venne posta in condizioni di potere comunicare economicamente e culturalmente con il resto del mondo solo per via indiretta ed attraverso le relative istituzioni italiane con tutte le varie limitazioni che esse imponevano ai Sardi.
Negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale il quadro della vita, lungo tutta la maggior parte del profilo costiero sardo, per attività marinare e per vivacità economica, sociale e culturale, non era molto dissimile da quello del secolo precedente.
La vita costiera isolana continua a rimanere asfittica, non tanto per le gravi conseguenze che questo conflitto aveva avuto nell’Isola, allorchè aveva falciato nei suoi fronti una larga parte della gioventù maschile sarda, quanto perché vi era uno stato di languido abbandono contrassegnato dalla mancanza di vie di comunicazione e dall’imperversare della malaria.
Questo quadro poco edificante, grosso modo, si mantenne a lungo quasi inalterato per altri decenni, poiché nelle aree costiere isolane, così come in quelle dell’interno, gli apporti del progresso moderno, quali ferrovia, motorizzazione, energia elettrica, telefono, quando vi erano arrivati, vi avevano determinato mutamenti del tenore di vita più formali che sostanziali, perchè non erano stati accompagnati da alcuna significativa innovazione socio-economico e culturale.
A tutti gli effetti, la vita costiera isolana, nella prima metà del XX secolo, sommariamente era ancora, per quel grave stato di abbandono, tutt’altro che proiettata verso lo sviluppo; essa esprimeva, quindi, un’immagine notevolmente depressa e molto simile a quella ottocentesca.
Nei primi decenni del 900' solo Cagliari, ed in misura molto minore Porto Torres ed Olbia, vennero investite in maniera più diretta dai riflessi del progresso moderno e conseguentemente registrarono una intensificazione dei servizi di linea dei loro rapporti commerciali con il mondo esterno.
Servizi che, non diversamente dal passato furono esclusivamente gestiti da forze imprenditoriali extrainsulari per cui i Sardi continuarono ad essere assenti nel mare che circonda la loro terra.
Tutti gli altri centri isolani affacciati sul mare o presso il mare, eccetto quelli interessati dall’esportazione dei minerali estratti dalle non lontane miniere del retroterra, continuavano ad affidare la propria sopravvivenza ad uno stentato comparto agro-pastorale ed a quello della pesca marittima che rispettivamente, non diversamente dal passato, avevano per protagonisti Sardi ed i non Sardi.
Questa grave situazione della vita costiera isolana si mantenne grosso modo quasi inalterata anche dopo i primi anni della seconda metà del 900’; cioè anche quando nello scenario del Mediterraneo si ebbero radicali mutamenti conseguenti all’indebolimento subito dalle principali potenze europee a causa del secondo conflitto mondiale.
Anche se questi mutamenti furono costituiti dal crollo del vecchio colonialismo europeo e dal fatto che gli interlocutori politici e militari principali di questo mare erano diventati gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la Sardegna, quasi fatalmente si ritrovò in una situazione che ben poco poteva mutare rispetto al passato.
Lungo tutto il Mediterraneo, da Suez a Gibilterra, almeno su un piano formale, erano scomparse tutte le colonie, perchè Egitto, Israele, Libano, Giordania, Siria, Cipro, Malta, Libia, Tunisia, ed Algeria, chi in un modo e chi nell’altro, avevano saputo conquistarsi la loro indipendenza e, quindi, la loro piena sovranità politica; tuttavia non altrettanto è accaduto in Sardegna, sia per l’incapacità di una parte della sua classe politica, sia per il tradimento della parte rimanente.
Questa terra, infatti, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, coll’inganno di un’autonomia formale che, se non de iure almeno de facto, legalizza una completa subordinanza sostanziale al nuovo regime politico pretestuosamente democratico, creatosi in Italia, si è ritrovata invischiata in una situazione altamente distruttiva dell’identità dei Sardi e che, per l’appunto, ha lasciato loro ben poco spazio per potere attuare un reale e valido progresso civile e, tanto meno, per utilizzare il mare come uno dei fattori principali del loro rinnovamento sociale, economico e culturale.
Vi fu, quindi, un vero e proprio tradimento nei confronti di tutto il Popolo Sardo, da parte della sua stessa classe political; tradimento che nell’esordio del sistema democratico italiano era stata eletta per tutelare i più vitali interessi della Sardegna:
Tale tradimento, ancora impunito, fu allora reso possibile, oltre che dagli interessi personali dei politici isolani anche da una loro spiccata incapacità politica che risalta in tutta la sua gravità analizzando i contenuti dello Statuto Autonomistico che essi sottoposero alle modifiche e all’approvazione da parte del Parlamento Italiano.
Tale Statuto, infatti, è stato assurdamente varato preservando il quasi integrale, i poteri assoluti esercitati dallo Stato Italiano nel settore delle comunicazioni della Sardegna con il mondo esterno; conseguentemente esso assegna alla Regione Sarda competenze puramente formali e marginali in materia di tutto ciò che è relativo ai traffici marittimi isolani, porti compresi.
Queste competenze marginali non permettono ancora oggi ai Sardi, infatti, nè di programmare, nè di decidere nel campo delle comunicazione marittime o aeree isolane; le concedono solo di inviare alcuni rappresentanti, privi di potere di veto e di ogni altro potere vincolante, nell’ambito di sedi decisionali ufficiali e private esterne che controllano i collegamenti della Sardegna con il mondo esterno.
Oltretutto nessuno dei 58 articoli che costituiscono questo " Statuto Sardo" è stato elaborato in modo da favorire la formazione se non di un effettivo potere marinaro, almeno di una cultura marinara sarda .
In base a tale presupposto, appaiono più che evidenti le motivazioni per cui, anche se la Regione Sarda, in base all’art.5 di detto Statuto, aveva ed ha la competenza di adattare alle sue esigenze le leggi della Repubblica Italiana, emanando norme di integrazione ed attuazione anche nelle materie della pubblica istruzione di ogni ordine è grado, nell’arco di circa 64 anni, non si è mai minimamente preoccupata di creare nel settore dell’istruzione isolana una qualche struttura formativa atta a favorire il risveglio di una qualche attenzione vitale dei Sardi verso il loro mare.
Si spiega così perché la Sardegna, malgrado la sua ottima posizione geografica, i suoi 18 49 km. di coste ed i numerosi sbocchi naturali che ha sul Mediterraneo, al di fuori dei decrepiti e quasi inutili Istituti Nautici di Cagliari e di Carloforte, che preparano aspiranti ufficiali macchinisti delle navi mercantili, non possiede ancora oggi, dopo l’esordio del 2000, nè alcun centro di studi marittimi, nè una facoltà di ingegneria navale, nè scuole di addestramento professionale di indirizzo marinaro.
Si deve cioè affermare che la Regione Sarda, da quando è sorta sino ad oggi
, non ha mai potuto o voluto elaborare una politica marinara in favore dei Sardi, quasi che tutti gli uomini politici che sinora ne hanno fatto parte fossero fermamente convinti che il mare stesso non facia parte dall’ambiente isolamo e non influisca sulla vita dei Sardi.
Poiché tutto ciò non è avvenuto per puro caso, è logico sottolineare il persistere a danno dei Sardi, ancora dal periodo postbellico sino ad oggi, di quelle forze coloniali che hanno sempre fatto si in primo luogo che qualsivoglia attività svolta nel mare di Sardegna, analogamente all’assetto dei trasporti marittimi isolani, fosse libero da qualsiasi controllo delle forze politiche ed economiche locali.
La restaurazione postbellica del secolare controllo che le organizzazioni imprenditoriali marittime italiane hanno sempre esercitato nelle comunicazioni marittime isolane hanno con il mondo esterno è apertamente rivelata dall’episodio della Sardamare; episodio che comprova anche il persistere di quella precisa volontà ottocentesca di impedire a tutti i costi un revival marinaro sardo.
La Sardamare era una società di navigazione sarda creata, per riattivare i collegamenti marittimi della Sardegna con il mondo esterno che erano stati interrotti dalla guerra..
Essa, dopo essere sorta nel 1945 ad opera di una folta schiera di commercianti e di imprenditori sardi, racimolando, mediante sottoscrizioni pubbliche eseguite da persone di ogni condizione sociale e culturale, la somma allora grossa di 300 milioni di lire, acquistarono subito il motoveliero Tina che incominciò subito a dare un pò di ossigeno alla morente economia isolana, facendo la spola fra l’Isola ed il Continente.
A questo natante si aggiunse prima, nel 1946, la motonave Azuni, che aveva quasi tutto l’equipaggio ed il comandante sardi, e poi la motonave Anjoy, il piroscafo Sardegna di tipo Liberty ed un vaporino Caprera da 1500 tonnellate.
Anche se non fu esente da alcune manchevolezze, la Sardamare operò comunque positivamente sino a quando i suoi progetti di sviluppo urtarono contro le decisioni governative; queste, infatti, esclusero, con tutta una serie di pretesti infondati, le sue navi dalle linee marittime da e per la Sardegna che furono invece assegnate in concessione, alla compagnia di navigazione napoletanaTirrenia.
Nell’occasione mancò del tutto alla Sardamare qualsiasi tipo di sostegno da parte delle forze politiche isolane; indicando così che esse operavano contro gli interessi dei Sardi; pertanto, la Tirrenia, senza alcun intralcio potè inviare tre vecchie navi prossime al disarmo (Moncenico, Campidoglio ed Abazia) a prendere servizio nelle linee marittime che collegavano i principali porti sardi con quelli italiani del Tirreno.
Conseguentemente la Sardamare, dopo essere stata costretta ad operare con il cabotaggio solo nel ristretto e poco redditizio spazio dei collegamenti con i porti minori dell’Isola, andò progressivamente languendo sino al 1954, allorchè per salvarsi dal fallimento dovette svendere tutti i suoi mezzi all’armatore campano Onorato.
Comunque la mancanza di una politica marittima regionale lascia comprendere perché, lungo la maggior parte del contorno costiero isolano, lo stato di abbandono sia perdurato ben oltre i primi anni della fine secondo conflitto mondiale.
Questo avvenimento segnò nell’Isola la fine del decentramento dei trasporti marittimi a favore di un loro accentramento nei porti principali dell’Isola quali Cagliari, Olbia e Porto Torres; ciò fece si che negli anni 50' la vita lungo la maggior parte delle coste isolane diventasse ancora più grama, poiché, sostanzialmente, la sola attività marinara che vi sopravvisse fu quella della pesca prevalentemente attuata da operatori mon sardi.
Tali traffici erano e sono, infatti, eseguiti mediante un sistema autonomo di trasporti completamente staccato da quel poco di imprenditoria navale presente in Sardegna, poichè è rappresentato da armatori e mezzi navali esterni battenti prevalentemente bandiere straniere.
Si deve anzi dire che, nonostante questo processo di sviluppo, tutti i grandi e piccoli porti tradizionali sardi dai quali è sempre dipeso in gran parte lo stato dell’economia isolana continuano a permanere in uno stato di discutibile efficienza.
Considerando, inoltre, che poli di sviluppo industriale inseriti nell’Isola, unitamente alle loro industrie ausiliari minori, create da imprenditori continentali sfruttando abilmente le sovvenzioni regionali attraverso interessate connivenze politiche, hanno relegato i Sardi nel ruolo di fornitori di una generica manovalanza, il giudizio sul processo di sviluppo attuato sino ad oggi nell’Isola non può che essere negativo.
D’altro canto, la completa disfunzione di questo processo di sviluppo rispetto ai più semplici interessi isolani, è posta in evidenza dal fatto che, proprio poco prima degli anni 80,’ la maggior parte di questi poli industriali sono stati investiti, come era logico aspettarsi, da una progressiva crisi rovinosa che ha fatto calare drasticamente il già limitato numero di posti di lavoro che aveva fornito ai Sardi, per cui la disoccupazione, in maniera molto più drammatica del passato, continua ad essere la connotazione principale dell’attuale fisionomia socio-economica ulteriormente spopolando le aree interne isolane rendendole ulteriormente improduttive.
Si deve quindi riconoscere che l’impianto irrazionale di questi poli industriali nell’Isola, dettato dall’assurda pretesa governativa di voler risolvere, con la connivenza della classe politica isolana i problemi dello sviluppo civile dei Sardi esclusivamente secondo il metro di una interessata convenienza politica che gli ha s assecondato gli interessi di alcun avventurieri industriali, unitamente all’inevitabile conseguente fallimento, deve essere considerato la causa p rima della disastrosa situazione socio-economica che, dopo avere investito l’Isola già dalla fine dell’ultimo ventennio del XX secolo, vi permane tuttora dopo aver generato una nuova ondata migratoria sarda.
Conseguentemente si ha nell’Isola la quanto mai assurda rovinosa situazione creata dalla sua classe politica passata e mantenuta tuttora da quella attuale per cui malgrado abbia un territorio di circa 24.000 Kmq. che per il suo clima e per le notevoli risorse e per le possibilità di sviluppo ancora presenti deve essere considerata una Terra Benedetta da Dio, non riesce ad assicurare un futuro ai suoi figli anchee se la sua popolazione è circa la metà di quella della sola città di Roma.
Evidentemente c’è in Sardegna più che quakcosa che non va e questo lo si capisce quando si rileva che le sresse prerogaative che in questa terra sono negate ad un sardo costringendolo ad emigrarre, quali ad esempio il posto di lavoro, abitazione, previdenze e contributi regional, vengono troppo spesso econcess con eccessiva liberalità ad un non sardo che si vanta di essere più sardo dei Sardi.
Ciò naturalmente non è avvenuto a caso o per una impotenza operativa in essi congenita, ma per cause culturali, economiche e politiche precise che possono essere individuate rispettivamente nella mancanza di una cultura imprenditoriale, nelle mancanza di capitali e in una politica regionale eccessivamente servile che è stata sempre sostanzialmente filoitaliana e formalmente filosarda.
L a Tirrenia anche se tramite questo monopolio, per oltre mezzo secolo, ha svolto circa 80% della sua attività nei collegamenti isolani, essa non ha mai dato alcun valido contributo all’occupazione in Sardegna perchè fuori dell’Isola, non solo ha ubicato i suoi cantieri, ma ha anche assunto il 98% dei suoi 2200 dipendenti.
Inoltre, anche se la maggior parte dei suoi introiti dipendevano dalla Sardegna, essa non vi ha mai pagato nemmeno le tasse poichè la sua sede è stata sempre ubicata a Napoli.
Tutto ciò, comunque, sarebbe stato appena appena sopportabile se, in aggiunta, questa compagnia marittima napoletana non avesse costantemente operato al di sotto delle reali necessità dei Sardi.
La Tirrenia ha, cioè, sempre svolto nell’Isola un cronico e quanto mai oneroso disservizio che è tollerato dalla maggioranza dei Sardi grazie alla loro proverbiale pazienza civica, anche se poi questa non va molto a loro favore poichè, agli effetti pratici, non è molto diversa dalla pazienza dell’asino bendato che gira docilmente intorno alla mola sino al totale esaurimento di se stesso.
La consistenza di questo disservizio appare vistosamente determinata dai vari suoi macroscopici aspetti negativi ben noti ,oltre che a tutti i Sardi, anche a milioni di turisti che fra gli anni 70' e gli anni 80' si sono dovuti servire dei suoi mezzi per arrivare e partire dalla Sardegna.
Fra questi, oltre che i lunghi ed ingiustificati scioperi che puntualmente il personale viaggiante della Tirrenia eseguiva nell’approssimarsi dei principali festività dell’anno, per fare marcire nelle banchine dei porti le spedizioni prodotti alimentari sardi, basta ricordare le numerosissime migliaia di passeggeri che sino a qualche anno fa erano costretti a bivaccare per vari giorni sotto le intemperie, poichè la Tirrenia, per il numero limitato di mezzi messo in linea, non riusciva a fare fronte al traffico turistico isolano dei mesi di punta.
Basta anche ricordare che la maggior parte dei Sardi, specie nei mesi estivi, erano, oltretutto, costretti a viaggiare sulle navi della Tirrenia in vergognose condizioni.
Infatti, una larga parte dei posti in cuccetta, col pretesto di una prenotazione turistica, erano riservati ai continentali, i passeggeri sardi, dovevano fare la traversata dormendo su una poltrona (quando erano fortunati) o riversi come cani sui pavimenti dei saloni e dei corridoi, sul ponte e dentro le scialuppe di salvataggio.
Pertanto, apparivano giustificate le lamentele dei Sardi, quindi. con una certa esagerazione consideravano questo genere di trasporti non molto dissimile da quello che in passato veniva eseguito dalle navi negriere.
Come se non bastasse questo riprovevole operato di pura marca coloniale che la Tirrenia ha svolto in Sardegna, era ulteriormente aggravato da un pauroso e continuo deficit finanziario puntualmente risanato da laute sovvenzioni statali, con il pretesto di dover tenere in vita questa società marittima ai fini di tutelare gli interessi dei Sardi, garantendo la loro comunicabilità con la penisola italiana, con incredibile generosità e senza accurate verifiche finanziarie ha puntualmente pagato questi deficit con soldi pubblici.
Si è così calcolato che, dall’inizio degli anni 70' alla fine degli anni 80', la Tirrenia avrebbe ricevuto dal governo all’incirca 5.000 miliardi di lire somma con cui, nello stesso periodo si potevano costruire od acquistare no meno di 120 moderne motonavi overcraft.
Mediante questo alto numero di mezzi più celeri e moderni sarebbe stato possibile collegare la Sardegna con il mondo esterno non solo a più vasto raggio, ma anche in maniera molto più economica, celere e razionale delle 12 vecchie e lente unità della Tirrenia che hanno questi monopolizzato il trasporto marittimo isolano sino agli anni 80'.
.I Sardi ed alcuni loro rappresentanti politici anche se spesso si sono lamentati di questo stato di cose, non lo hanno, però, mai apertamente contestato con forza irruente;
Negli anni successivi anche se altre compagnie di navigazione italiane, quali la Mobby Line e la Grimaldi hanno fatto la loro comparsa nei porti isolani per togliere spazio alla Tirrenia, si ebbe comunque un ostinato persistere dell’ estraneità dell’imprenditoria isolana dal mare che appare essenzialmente determinato, oltre che dai gravi condizionamenti imposti ai Sardi dall’esterno, dall’insensibile incapacità degli uomini politici isolani che assurdamente vengono rieletti periodicamente per gestire il presente ed il futuri dei Sardi anche se hanno ripetutamente e palesemente dimostrato la loro sterilità operativa nel risolvere alcuno dei gravi problemi sociali, economici e culturali che continuano ad attanagliare la vita isolana dagli anni cinquanta sino al presente come, ad esempio quello dell’emigrazione giovanile ed il crescente spopolamento delle arre interne.
L’unica iniziativa che essi hanno preso è quella di richiedere al Governo Italiano una Continuità Territoriale fra la Sardegna e la Penisola Italiana.
Tale richiesta, in base alla quale i costi, che i Sardi devono affrontare per il trasporto via mare, dovrebbero essere equiparati a quelli che gli Italiani affrontano per il trasporto via terra, con varie alternative è stata accolta più formalmente che sostanzialmente; pertanto è sempre ben lungi da eliminare la completa subordinazione che l’Isola ha in ogni settore della vita marinara.
I Sardi stessi,quindi, ancora nel presente sono ben lungi da poter eliminare tutti quei pesanti condizionamenti che impediscono una libera correlazione della loro vita sociale, economica e culturale con il mare con le altre regioni non italiane del Mediterraneo.
A parte tutte le pecche viste, è necessario sottolineare che l’aspetto più negativo dell’attuale sistema dei trasporti marittimi isoòlani, non diversamente da quelli delle altre compagnie armatoriali presenti nell’Isola, è un sistema operativamente asfittico poichè limita la libertà di comunicazione dei Sardi, libertà di comunicazione che potrebbe essere garantita solo se essi disponessero in ‘roprio dei mezzi navali indispensabili al trasporto sia dei passeggeri che delle merci.
Esso si limita, infatti, a collegare i porti principali sardi, quali Cagliari, Porto Torres ed Olbia limitatamente ai porti terminali italiani di Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli e Palermo.
Si deve notare a proposito che tale subordinazione continua ad essere colonialisticamente utile ancora oggi anche se la Sardegna risulta quasi completamente depredata di tutte le sue più importanti ricchezze naturali quali erano i suoi minerali, i suoi boschi e la sua produttività agricola e zootecnica.
La Sardegna, infatti, è ancora fonte di reddito per l’economia italiana perchè ancora vi esistono potenzialità economiche da fagocitate dall’esterno per creare impunemente un maggiore benessere esterno su un maggiore malessere dei Sardi.
Ciò è chiarmente ravisabile nel fatto che dopo il fallimento della Ttirrenia che per molti versi potrebbe essere stato manovrato da un dictat politico economico della Comunotà Europea e la conseguente vendita delle sue18 navi all’armatore napoletano per la somma irrisoria di 378 milioni di euro la situazione delle comunicazioni marittime della Sardegna appare notevolmente peggiorata
dall’esordinte tentativo 9della C.I.N. ( Questo è il nome della nuova compagnia marittima di V.Onorato che deve operare nei collegamenti marittimi con le stravecchie navi della Tirrenia battezate e lucidate a nuovo) di instaurare un nuovo monopolio caratterizzato dal vecchio strozzzinaggio uguale se non peggiore a quello che praticava la Rubattino.
Questa volta contrariamente al paasto alcuni
poliici isolani( Capellacci e Pili) stanno facendo una viva contestazione contro il Governo Italiano per il grave danno che stanno subendo i Sardi a causa di tale vendita ritenuta truffaldina .
Ma a parte ciò è palese che questo fatto dimostra imcisivamente che la politica marittima italiana in Sardegna non è molto dissimile da quella ottocentesca per cui la causa principale
per cui i Sardi non possegono una propria flotta e continuano a dipendere e ad essere condizionati negativamente da operatori esterni per quanto riguarda i trasporti marittimi, deve in promo luogo attribuirsi oltre che alla politica dispotica imposta all’Iasola anche alla eccessiva
pazienza o paasività con cui i Sardi continuano a tollerare tuttociò.
Pertanto è logico desimere che questo stato di cosenegativo cesserà nellsola’solo quando tutto il Popolo Sardo si libererà dal plagio culturale italiano per aggiungere le sue contestazioni a quelle dei suoi pochi uomini politici che antepongonoil bene della Sardegna ai propro interesse e agli intrighi del proprooio partito politico.
F. Bruno Vacca
Estratto dall’opera personale I Sardi ed il Mare ( Studio dei rapportti che i Sardi hanno avuto con il mare dlla piotostoria sino al XX sec. d.C.) per la quale si cerca un editore disposti a pubblicarla a proprie spese.
emai : f.brunovacca@tiscali.it
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